L Amica Geniale Pdf Download Gratis
L'amica geniale - Elena Ferrante
Elena Ferrante L'AMICA GENIALE Infanzia, adolescenza Edizioni e/o Via Camozzi, 1 00195 Roma info@edizionieo.it www.edizionieo.it I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera e i nomi e i dialoghi ivi contenuti sono unicamente frutto dell'immaginazione e della libera espressione artistica dell'autrice. Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali e puramente casuale e non intenzionale. Copyright (c) 2011 by Edizioni e/o Grafica/Emanuele Ragnisco www.mekkanografici.com Foto in copertina (c) Anthony Boccaccio/Getty Images ISBN 9788866320951 IL SIGNORE: Ma si, fatti vedere quando vuoi; non ho mai odiato i tuoi simili, di tutti gli spiriti che dicono di no, il Beffardo e quello che mi da meno fastidio. L'agire dell'uomo si sgonfia fin troppo facilmente, egli presto si invaghisce del riposo assoluto. Percio gli do volentieri un compagno che lo pungoli e che sia tenuto a fare la parte del diavolo. J.W. GOETHE, Faust INDICE DEI PERSONAGGI La famiglia Cerullo (la famiglia dello scarparo): Fernando Cerullo, calzolaio. Nunzia Cerullo, madre di Lila. Raffaella Cerullo, da tutti detta Lina, Lila solo per Elena. Rino Cerullo, fratello maggiore di Lila, scarparo anche lui. Rino si chiamera anche uno dei figli di Lila. Altri figli. La famiglia Greco (la famiglia dell'usciere): Elena Greco, detta Lenuccia o Lenu. E la primogenita, dopo di lei Peppe, Gianni ed Elisa. Il padre fa l'usciere al comune. La madre, casalinga. La famiglia Carracci (la famiglia di don Achille): Don Achille Carracci, l'orco delle favole. Maria Carracci, moglie di don Achille. Stefano Carracci, figlio di don Achille, salumiere nella salumeria di famiglia. Pinuccia e Alfonso Carracci, gli altri due figli di don Achille. La famiglia Peluso (la famiglia del falegname): Alfredo Peluso, falegname. Giuseppina Peluso, moglie di Alfredo. Pasquale Peluso, figlio maggiore di Alfredo e Giuseppina, muratore. Carmela Peluso, che si fa chiamare anche Carmen, sorella di Pasquale, commessa di merceria. Altri figli. La famiglia Cappuccio (la famiglia della vedova pazza): Melina, una parente della madre di Lila, vedova pazza. Il marito di Melina, che scaricava cassette al mercato ortofrutticolo. Ada Cappuccio, figlia di Melina. Antonio Cappuccio, suo fratello, meccanico. Altri figli. La famiglia Sarratore (la famiglia del ferroviere-poeta): Donato Sarratore, controllore. Lidia Sarratore, moglie di Donato. Nino Sarratore, il piu grande dei cinque figli di Donato e Lidia. Marisa Sarratore, figlia di Donato e Lidia. Pino, Clelia e Ciro Sarratore, i figli piu piccoli di Donato e Lidia. La famiglia Scanno (la famiglia del fruttivendolo): Nicola Scanno, fruttivendolo. Assunta Scanno, moglie di Nicola. Enzo Scanno, figlio di Nicola e Assunta, anch'egli fruttivendolo. Altri figli. La famiglia Solara (la famiglia del proprietario dell'omonimo bar-pasticceria): Silvio Solara, padrone del bar-pasticceria. Manuela Solara, moglie di Silvio. Marcello e Michele Solara, figli di Silvio e Manuela. La famiglia Spagnuolo (la famiglia del pasticciere): Il signor Spagnuolo, pasticciere del bar-pasticceria Solara. Rosa Spagnuolo, moglie del pasticciere. Gigliola Spagnuolo, figlia del pasticciere. Altri figli. Gino, il figlio del farmacista. Gli insegnanti: Ferraro, maestro e bibliotecario. La Oliviero, maestra. Gerace, professore del ginnasio. La Galiani, professoressa del liceo. Nella Incardo, la cugina di Ischia della maestra Oliviero. PROLOGO Cancellare le tracce 1. Stamattina mi ha telefonato Rino, ho creduto che volesse ancora soldi e mi sono preparata a negarglieli. Invece il motivo della telefonata era un altro: sua madre non si trovava piu. «Da quando?». «Da due settimane». «E mi telefoni adesso?». Il tono gli dev'essere sembrato ostile, anche se non ero ne arrabbiata ne indignata, c'era solo un filo di sarcasmo. Ha provato a ribattere ma l'ha fatto confusamente, in imbarazzo, un po' in dialetto, un po' in italiano. Ha detto che s'era convinto che la madre fosse in giro per Napoli come al solito. «Pure di notte?». «Lo sai com'e fatta». «Lo so, ma due settimane d'assenza ti sembrano normali?». «Si. Tu non la vedi da molto, e peggiorata: non ha mai sonno, entra, esce, fa quello che le pare». Comunque alla fine si era preoccupato. Aveva chiesto a tutti, aveva fatto il giro degli ospedali, si era rivolto persino alla polizia. Niente, sua madre non era da nessuna parte. Che buon figlio: un uomo grosso, sui quarant'anni, mai lavorato in vita sua, solo traffici e sperperi. Mi sono immaginata con quanta cura avesse fatto le ricerche. Nessuna. Era senza cervello, e a cuore aveva soltanto se stesso. «Non e che sta da te?» mi ha chiesto all'improvviso. La madre? Qui a Torino? Conosceva bene la situazione e parlava solo per parlare. Lui si che era un viaggiatore, era venuto a casa mia almeno una decina di volte, senza essere invitato. Sua madre, che invece avrei accolto volentieri, non era mai uscita da Napoli in tutta la sua vita. Gli ho risposto: «No che non sta da me». «Sei sicura?». «Rino, per favore: t'ho detto che non c'e». «E allora dov'e andata?». Ha cominciato a piangere e ho lasciato che mettesse in scena la sua disperazione, singhiozzi che partivano finti e continuavano veri. Quando ha finito gli ho detto: «Per favore, una volta tanto comportati come vorrebbe lei: non la cercare». «Ma che dici?». «Dico quello che ho detto. E inutile. Impara a vivere da solo e non cercare piu nemmeno me». Ho riattaccato. 2. La madre di Rino si chiama Raffaella Cerullo, ma tutti l'hanno sempre chiamata Lina. Io no, non ho mai usato ne il primo nome ne il secondo. Da piu di sessant'anni per me e Lila. Se la chiamassi Lina o Raffaella, cosi, all'improvviso, penserebbe che la nostra amicizia e finita. Sono almeno tre decenni che mi dice di voler sparire senza lasciare traccia, e solo io so bene cosa vuole dire. Non ha mai avuto in mente una qualche fuga, un cambio di identita, il sogno di rifarsi una vita altrove. E non ha mai pensato al suicidio, disgustata com'e dall'idea che Rino abbia a che fare col suo corpo e sia costretto a occuparsene. Il suo proposito e stato sempre un altro: voleva volatilizzarsi; voleva disperdere ogni sua cellula; di lei non si doveva trovare piu niente. E poiche la conosco bene, o almeno credo di conoscerla, do per scontato che abbia trovato il modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte. 3. Sono passati i giorni. Ho guardato nella posta elettronica, in quella cartacea, ma senza speranza. Io ho scritto spessissimo a lei, lei non mi ha quasi mai risposto: questa e stata sempre la consuetudine. Preferiva il telefono o le lunghe notti di chiacchiere quando andavo a Napoli. Ho aperto i miei cassetti, le scatole di metallo dove conservo cose di ogni genere. Poche. Ho buttato via tanta roba, in particolare cio che la riguardava, e lei lo sa. Ho scoperto che non ho niente di suo, non un'immagine, non un biglietto, non un regalino. Mi sono sorpresa io stessa. Possibile che in tutti questi anni non mi abbia lasciato niente di se, o, peggio, io non abbia voluto conservare alcunche di lei? Possibile. Ho telefonato io a Rino, questa volta, l'ho fatto a malincuore. Non rispondeva ne sul fisso ne sul cellulare. Mi ha chiamato lui in serata, con comodo. Aveva la voce con cui cerca di stimolare un senso di pena. «Ho visto che hai chiamato. Hai notizie?». «No. E tu?». «Nessuna». M'ha detto cose sconclusionate. Voleva andare in tv, alla trasmissione che si occupa delle persone scomparse, fare un appello, chiedere perdono per tutto a sua mamma, supplicarla di tornare. Sono stata a sentire pazientemente, poi gli ho chiesto: «Hai guardato nel suo armadio?». «Per fare che?». Naturalmente non gli era mai venuta in mente la cosa piu ovvia. «Va' a guardare». C'e andato e si e reso conto che non c'era niente, nemmeno uno dei vestiti di sua madre, ne estivi ne invernali, solo vecchie grucce. L'ho mandato in giro a frugare per casa. Sparite le scarpe. Spariti i pochi libri. Sparite tutte le foto. Spariti i filmini. Sparito il suo computer, anche i vecchi dischetti che si usavano una volta, tutto, ogni cosa della sua esperienza di strega elettronica che aveva cominciato a destreggiarsi coi calcolatori gia sul finire degli anni Sessanta, all'epoca delle schede perforate. Rino era stupefatto. Gli ho detto: «Prenditi il tempo che vuoi ma poi telefonami e dimmi se hai trovato anche solo uno spillo che le appartiene». Mi ha chiamato il giorno dopo, era agitatissimo. «Non c'e niente». «Niente niente?». «No. S'e tagliata via da tutte le foto in cui stavamo insieme, anche quelle di quando ero piccolo». «Hai guardato bene?». «Dappertutto». «Anche nello scantinato?». «T'ho detto dappertutto. E sparita persino la scatola con i documenti: che so, vecchi certificati di nascita, contratti telefonici, ricevute di bollette. Che significa? Qualcuno ha rubato tutto? Cosa cercano? Che vogliono da mia madre e da me?». L'ho rassicurato, gli ho detto di stare tranquillo. Soprattutto da lui, era improbabile che qualcuno volesse qualcosa. «Posso venire a stare un po' a casa tua?». «No». «Per favore, non riesco a dormire». «Arrangiati, Rino, non so che farci». Ho riattaccato e quando lui ha ritelefonato non ho risposto. Mi sono seduta alla scrivania. Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato. Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso, a sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alle spalle. Mi sono sentita molto arrabbiata. Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto cio che mi e rimasto in mente. INFANZIA Storia di don Achille 1. La volta che Lila e io decidemmo di salire per le scale buie che portavano, gradino dietro gradino, rampa dietro rampa, fino alla porta dell'appartamento di don Achille, comincio la nostra amicizia. Mi ricordo la luce violacea del cortile, gli odori di una serata tiepida di primavera. Le mamme stavano preparando la cena, era ora di rientrare, ma noi ci attardavamo sottoponendoci per sfida, senza mai rivolgerci la parola, a prove di coraggio. Da qualche tempo, dentro e fuori scuola, non facevamo che quello. Lila infilava la mano e tutto il braccio nella bocca nera di un tombino, e io lo facevo subito dopo a mia volta, col batticuore, sperando che gli scarafaggi non mi corressero su per la pelle e i topi non mi mordessero. Lila s'arrampicava fino alla finestra a pianterreno della signora Spagnuolo, s'appendeva alla sbarra di ferro dove passava il filo per stendere i panni, si dondolava, quindi si lasciava andare giu sul marciapiede, e io lo facevo subito dopo a mia volta, pur temendo di cadere e farmi male. Lila s'infilava sotto pelle la rugginosa spilla francese che aveva trovato per strada non so quando ma che conservava in tasca come il regalo di una fata; e io osservavo la punta di metallo che le scavava un tunnel biancastro nel palmo, e poi, quando lei l'estraeva e me la tendeva, facevo lo stesso. A un certo punto mi lancio uno sguardo dei suoi, fermo, con gli occhi stretti, e si diresse verso la palazzina dove abitava don Achille. Mi gelai di paura. Don Achille era l'orco delle favole, avevo il divieto assoluto di avvicinarlo, parlargli, guardarlo, spiarlo, bisognava fare come se non esistessero ne lui ne la sua famiglia. C'erano nei suoi confronti, in casa mia ma non solo, un timore e un odio che non sapevo da dove nascessero. Mio padre ne parlava in un modo che me l'ero immaginato grosso, pieno di bolle violacee, furioso malgrado il "don", che a me suggeriva un'autorita calma. Era un essere fatto di non so quale materiale, ferro, vetro, ortica, ma vivo, vivo col respiro caldissimo che gli usciva dal naso e dalla bocca. Credevo che se solo l'avessi visto da lontano mi avrebbe cacciato negli occhi qualcosa di acuminato e bruciante. Se poi avessi fatto la pazzia di avvicinarmi alla porta di casa sua mi avrebbe uccisa. Aspettai un po' per vedere se Lila ci ripensava e tornava indietro. Sapevo cosa voleva fare, avevo inutilmente sperato che se ne dimenticasse, e invece no. I lampioni non si erano ancora accesi e nemmeno le luci delle scale. Dalle case arrivavano voci nervose. Per seguirla dovevo lasciare l'azzurrognolo del cortile ed entrare nel nero del portone. Quando finalmente mi decisi, all'inizio non vidi niente, sentii solo un odore di roba vecchia e DDT. Poi mi abituai allo scuro e scoprii Lila seduta sul primo gradino della prima rampa. Si alzo e cominciammo a salire. Avanzammo tenendoci dal lato della parete, lei due gradini avanti, io due gradini indietro e combattuta tra accorciare la distanza o lasciare che aumentasse. M'e rimasta l'impressione della spalla che strisciava contro il muro scrostato e l'idea che gli scalini fossero molto alti, piu di quelli della palazzina dove abitavo. Tremavo. Ogni rumore di passi, ogni voce era don Achille che ci arrivava alle spalle o ci veniva incontro con un lungo coltello, di quelli per aprire il petto alle galline. Si sentiva un odore d'aglio fritto. Maria, la moglie di don Achille, mi avrebbe messo nella padella con l'olio bollente, i figli mi avrebbero mangiato, lui mi avrebbe succhiato la testa come faceva mio padre con le triglie. Ci fermammo spesso, e tutte le volte sperai che Lila decidesse di tornare indietro. Ero molto sudata, lei non so. Ogni tanto guardava in alto, ma non capivo cosa, si vedeva solo il grigiore dei finestroni a ogni rampa. Le luci si accesero all'improvviso, ma tenui, polverose, lasciando ampie zone d'ombra piene di pericoli. Aspettammo per capire se era stato don Achille a girare l'interruttore ma non sentimmo niente, ne passi ne una porta che si apriva o si chiudeva. Poi Lila prosegui, e io dietro. Lei riteneva di fare una cosa giusta e necessaria, io mi ero dimenticata ogni buona ragione e di sicuro ero li solo perche c'era lei. Salivamo lentamente verso il piu grande dei nostri terrori di allora, andavamo a esporci alla paura e a interrogarla. Alla quarta rampa Lila si comporto in modo inatteso. Si fermo ad aspettarmi e quando la raggiunsi mi diede la mano. Questo gesto cambio tutto tra noi per sempre. 2. Era stata colpa sua. In un tempo non troppo distante - dieci giorni, un mese, chi lo sa, ignoravamo tutto del tempo, allora - mi aveva preso la bambola a tradimento e l'aveva buttata in fondo a uno scantinato. Ora stavamo salendo verso la paura, allora ci eravamo sentite obbligate a scendere, e di corsa, verso l'ignoto. In alto, in basso, ci pareva sempre di andare incontro a qualcosa di terribile che, pur esistendo da prima di noi, era noi e sempre noi che aspettava. Quando si e al mondo da poco e difficile capire quali sono i disastri all'origine del nostro sentimento del disastro, forse non se ne sente nemmeno la necessita. I grandi, in attesa di domani, si muovono in un presente dietro al quale c'e ieri o l'altro ieri o al massimo la settimana scorsa: al resto non vogliono pensare. I piccoli non sanno il significato di ieri, dell'altro ieri, e nemmeno di domani, tutto e questo, ora: la strada e questa, il portone e questo, le scale sono queste, questa e mamma, questo e papa, questo e il giorno, questa la notte. Io ero piccola e a conti fatti la mia bambola sapeva piu di me. Le parlavo, mi parlava. Aveva una faccia di celluloide con capelli di celluloide e occhi di celluloide. Indossava un vestitino blu che le aveva cucito mia madre in un raro momento felice, ed era bellissima. La bambola di Lila, invece, aveva un corpo di pezza gialliccia pieno di segatura, mi pareva brutta e lercia. Le due si spiavano, si soppesavano, erano pronte a scappare tra le nostre braccia se scoppiava un temporale, se c'erano i tuoni, se qualcuno piu grande e piu forte e coi denti aguzzi le voleva ghermire. Giocavamo nel cortile, ma come se non giocassimo insieme. Lila era seduta per terra, da un lato della finestrella di uno scantinato, io dall'altro. Ci piaceva, quel posto, innanzitutto perche potevamo disporre, sul cemento tra le sbarre dell'apertura, contro il reticolo, sia le cose di Tina, la mia bambola, sia quelle di Nu, la bambola di Lila. Ci mettevamo sassi, tappi di gassosa, fiorellini, chiodi, schegge di vetro. Cio che Lila diceva a Nu io lo captavo e lo dicevo a voce bassa a Tina, ma modificandolo un po'. Se lei prendeva un tappo e lo metteva in testa alla sua bambola come se fosse un cappello, io dicevo alla mia, in dialetto: Tina, mettiti la corona di regina se no prendi freddo. Se Nu giocava a campana in braccio a Lila, io poco dopo facevo fare lo stesso a Tina. Ma non succedeva ancora che concordassimo un gioco e cominciasse una collaborazione. Persino quel posto lo sceglievamo senza accordo. Lila andava li, e io girellavo, fingevo di andare da un'altra parte. Poi, come se niente fosse, mi disponevo anch'io accanto allo sfiatatoio, ma dal lato opposto. La cosa che ci attraeva di piu era l'aria fredda dello scantinato, un soffio che ci rinfrescava in primavera e d'estate. Poi ci piacevano le sbarre con le ragnatele, il buio, e il reticolo fitto che, rossastro di ruggine, si arricciolava sia dal lato mio che da quello di Lila, creando due spiragli paralleli attraverso i quali potevamo far cadere nell'oscurita sassi e ascoltarne il rumore quando toccavano terra. Tutto era bello e pauroso, allora. Attraverso quelle aperture il buio poteva prenderci all'improvviso le bambole, a volte al sicuro tra le nostre braccia, piu spesso messe di proposito accanto al reticolo ritorto e quindi esposte al respiro freddo dello scantinato, ai rumori minacciosi che ne venivano, ai fruscii, agli scricchiolii, al raspare. Nu e Tina non erano felici. I terrori che assaporavamo noi ogni giorno erano i loro. Non ci fidavamo della luce sulle pietre, sulle palazzine, sulla campagna, sulle persone fuori e dentro le case. Ne intuivamo gli angoli neri, i sentimenti compressi ma sempre vicini a esplodere. E attribuivamo a quelle bocche scure, alle caverne che oltre di loro si aprivano sotto le palazzine del rione, tutto cio che ci spaventava alla luce del giorno. Don Achille, per esempio, era non solo nella sua casa all'ultimo piano ma anche li sotto, ragno tra i ragni, topo tra i topi, una forma che assumeva tutte le forme. Lo immaginavo a bocca aperta per via di lunghe zanne d'animale, corpo di pietra invetriata ed erbe velenose, sempre pronto ad accogliere in un'enorme borsa nera tutto cio che lasciavamo cadere dagli angoli divelti del reticolo. Quella borsa era un tratto fondamentale di don Achille, ce l'aveva sempre, anche in casa sua, e ci metteva dentro materia viva e morta. Lila sapeva che avevo quella paura, la mia bambola ne parlava ad alta voce. Per questo, proprio nel giorno in cui senza nemmeno contrattare, solo con gli sguardi e i gesti, ci scambiammo per la prima volta le nostre bambole, lei, appena ebbe Tina, la spinse oltre la rete e la lascio cadere nell'oscurita. 3. Lila comparve nella mia vita in prima elementare e mi impressiono subito perche era molto cattiva. Eravamo tutte un po' cattive, in quella classe, ma solo quando la maestra Oliviero non poteva vederci. Lei invece era cattiva sempre. Una volta ridusse a pezzetti la carta assorbente, prima infilo i frammenti a uno a uno nel buco dell'inchiostro, poi comincio a pescarli col pennino e a lanciarceli addosso. Io fui colpita due volte nei capelli e una volta sul colletto bianco. La maestra strillo come sapeva fare lei, con una voce ad ago, lunga e puntuta, che ci terrorizzava, e le ordino di andare subito in castigo dietro la lavagna. Lila non obbedi e non parve nemmeno spaventarsi, anzi continuo a lanciare in giro pezzi di carta bagnati nell'inchiostro. La maestra Oliviero, allora, una donna pesante che ci sembrava molto vecchia anche se doveva essere appena sopra i quaranta, venne giu dalla cattedra minacciandola, inciampo non si sa bene su cosa, non riusci a tenersi in equilibrio e ando a sbattere con la faccia contro lo spigolo di un banco. Resto sul pavimento che pareva morta. Cosa successe subito dopo non me lo ricordo, ricordo solo il corpo immobile della maestra, un fagotto scuro, e Lila che la fissava col viso serio. Ho in mente tanti incidenti di questo tipo. Vivevamo in un mondo in cui bambini e adulti si ferivano spesso, dalle ferite usciva il sangue, veniva la suppurazione e a volte morivano. Una delle figlie della signora Assunta, la fruttivendola, si era ferita con un chiodo ed era morta di tetano. Il figlio piu piccolo della signora Spagnuolo era morto di crup alla gola. Un mio cugino, all'eta di vent'anni, una mattina ando a spalare macerie e la sera era morto schiacciato, col sangue che gli usciva dalle orecchie e dalla bocca. Il padre di mia madre era rimasto ucciso perche stava costruendo un palazzo ed era caduto giu. Il padre del signor Peluso non aveva un braccio, gliel'aveva tagliato il tornio a tradimento. La sorella di Giuseppina, la moglie del signor Peluso, era morta di tubercolosi a ventidue anni. Il figlio grande di don Achille - non l'avevo mai visto, eppure mi pareva di ricordarmelo - era andato in guerra ed era morto due volte, prima annegato nell'oceano Pacifico, poi mangiato dai pescecani. Tutta la famiglia Melchiorre era morta abbracciata, urlando di paura, sotto un bombardamento. La vecchia signorina Clorinda era morta respirando il gas invece dell'aria. Giannino, che stava in quarta quando noi eravamo in prima, un giorno era morto perche aveva trovato una bomba e l'aveva toccata. Luigina, con cui avevamo giocato in cortile o forse no, era solo un nome, l'aveva uccisa il tifo petecchiale. Il nostro mondo era cosi, pieno di parole che ammazzavano: il crup, il tetano, il tifo petecchiale, il gas, la guerra, il tornio, le macerie, il lavoro, il bombardamento, la bomba, la tubercolosi, la suppurazione. Faccio risalire le tante paure che mi hanno accompagnata per tutta la vita a quei vocaboli e a quegli anni. Si poteva morire anche di cose che parevano normali. Si poteva morire, per esempio, se sudavi e poi bevevi l'acqua fredda del rubinetto senza esserti prima bagnata i polsi: succedeva che ti coprivi di puntini rossi, ti veniva la tosse e non potevi respirare piu. Si poteva morire se mangiavi le ciliegie nere senza sputare il nocciolo. Si poteva morire se masticavi la gomma americana e per distrazione la ingoiavi. Si poteva morire soprattutto se prendevi una botta alla tempia. La tempia era un posto fragilissimo, ci stavamo tutte molto attente. Bastava una sassata, e le sassate erano la norma. All'uscita di scuola una banda di maschi della campagna, capeggiata da uno che si chiamava Enzo o Enzuccio, uno dei figli di Assunta la fruttivendola, comincio a tirarci le pietre. Si sentivano offesi dal fatto che eravamo piu brave di loro. Quando arrivavano i sassi scappavamo tutte, ma Lila no, seguitava a camminare con passo regolare e a volte addirittura si fermava. Era molto brava a studiare la traiettoria dei sassi e a scansarli con un movimento calmo, oggi direi elegante. Aveva un fratello maschio piu grande e forse aveva imparato da lui, non so, anch'io avevo fratelli ma piu piccoli di me e da loro non avevo imparato niente. Tuttavia, quando mi rendevo conto che era rimasta indietro, pur avendo molta paura mi fermavo ad aspettarla. C'era gia allora qualcosa che mi impediva di abbandonarla. Non la conoscevo bene, non ci eravamo mai rivolte la parola pur essendo continuamente in gara tra noi, in classe e fuori. Ma sentivo confusamente che se fossi scappata insieme alle altre avrei lasciato a lei qualcosa di mio che non mi avrebbe restituito piu. All'inizio restavo nascosta dietro un angolo e mi sporgevo per vedere se Lila arrivava. Poi, visto che non si muoveva, mi costringevo a raggiungerla, le passavo le pietre, le tiravo anch'io. Ma lo facevo senza convinzione, ho fatto molte cose nella mia vita ma mai convinta, mi sono sempre sentita un po' scollata dalle mie stesse azioni. Lila invece aveva, da piccola - ora non so dire di preciso se gia a sei o a sette anni, o quando andammo insieme su per le scale che portavano a casa di don Achille e ne avevamo otto, quasi nove -, la caratteristica della determinazione assoluta. Che impugnasse l'asta tricolore della penna o una pietra o il corrimano delle scale buie, comunicava l'idea che cio che ne doveva seguire - conficcare con un lancio preciso il pennino nel legno del banco, dispensare pallottole intrise di inchiostro, colpire i maschi della campagna, salire fino alla porta di don Achille - l'avrebbe fatto senza esitazione. La banda veniva dal terrapieno della ferrovia, faceva provvista di sassi tra i binari. Enzo, il capo, era un bambino molto pericoloso, almeno tre anni piu di noi, ripetente, coi capelli cortissimi biondi e gli occhi chiari. Lanciava con precisione pietre piccole dai bordi taglienti, e Lila aspettava i suoi tiri per mostrargli come li scansava, farlo arrabbiare ancora di piu e rispondere subito con tiri altrettanto pericolosi. Una volta lo colpimmo alla caviglia destra, e dico lo colpimmo perche ero stata io a passare a Lila una pietra piatta coi bordi tutti scheggiati. La pietra striscio sulla pelle di Enzo come un rasoio, lasciandogli una macchia rossa da cui subito usci sangue. Il bambino si guardo la gamba ferita, ce l'ho davanti agli occhi: tra pollice e indice aveva il sasso che stava per tirare, il braccio era gia sollevato per il lancio, eppure si blocco stupefatto. Anche i maschi sotto il suo comando guardarono increduli il sangue. Lila invece non mostro la minima soddisfazione per il buon esito del tiro e si chino a raccogliere un'altra pietra. Io l'afferrai per un braccio, fu il nostro primo contatto, un contatto brusco e spaventato. Sentivo che la banda sarebbe diventata piu feroce e volevo che ci ritirassimo. Ma non ci fu tempo. Enzo, malgrado la caviglia sanguinante, si riprese dallo stupore e lancio la pietra che aveva in mano. Tenevo ancora stretta Lila quando la sassata la prese in fronte e me la strappo via. Un attimo dopo era distesa sul marciapiede con la testa rotta. 4. Sangue. In genere usciva dalle ferite solo dopo che ci si era scambiati maledizioni orribili e oscenita disgustose. Si seguiva sempre quella trafila. Mio padre, che pure mi pareva un uomo buono, lanciava di continuo insulti e minacce se qualcuno, come diceva, non era degno di stare sulla faccia della terra. Ce l'aveva in particolare con don Achille. Aveva sempre qualcosa da rinfacciargli e a volte mi mettevo le mani sulle orecchie per non restare troppo impressionata dalle sue brutte parole. Quando ne parlava con mia madre lo chiamava "tuo cugino", ma mia madre rinnegava subito quel legame di sangue (c'era una parentela molto alla lontana) e rincarava la dose degli insulti. Mi spaventavano le loro rabbie, e mi spaventava soprattutto che don Achille potesse avere orecchie cosi ricettive da percepire anche gli insulti detti da grande distanza. Temevo che venisse ad ammazzarli. Il nemico giurato di don Achille, comunque, non era mio padre ma il signor Peluso, un falegname bravissimo sempre senza soldi in quanto si giocava tutto quello che guadagnava nel retrobottega del bar Solara. Peluso era padre di una nostra compagna di scuola, Carmela, di Pasquale, che era grande, e di altri due figli, bambini piu miserabili di noi, con i quali in qualche caso io e Lila giocavamo e che a scuola e fuori cercavano sempre di rubarci le nostre cose, la penna, la gomma, la cotognata, tanto che tornavano a casa pieni di lividi per le botte che gli davamo. Le volte che lo vedevamo, il signor Peluso ci pareva l'immagine della disperazione. Da un lato perdeva tutto al gioco e dall'altro si prendeva a schiaffi in pubblico perche non sapeva piu come sfamare la famiglia. Per ragioni oscure attribuiva a don Achille la propria rovina. Gli addebitava il fatto che a tradimento s'era preso, come se il suo corpo tenebroso fosse fatto di calamita, tutti gli arnesi per il lavoro di falegname, cosa che aveva reso inutile la bottega. Gli rimproverava che s'era preso anche quella e l'aveva trasformata in salumeria. Per anni ho immaginato la pinza, la sega, la tenaglia, il martello, la morsa e mille e mille chiodi che venivano risucchiati in forma di sciame metallico dentro la materia che componeva don Achille. Per anni ho visto uscire dal suo corpo, grezzo e pesante di materie eterogenee, salami, provoloni, mortadelle, sugna e prosciutto, sempre in forma di sciame. Fatti avvenuti in tempi bui. Don Achille doveva essersi manifestato in tutta la sua mostruosa natura prima che noi nascessimo. Prima. Lila usava spesso quella formula, a scuola e fuori. Ma pareva che non le importasse tanto cio che era accaduto prima di noi - eventi in genere oscuri, su cui i grandi o tacevano o si pronunciavano con molta reticenza - quanto che ci fosse stato davvero un prima. Era questo che all'epoca la lasciava perplessa e anzi a volte la innervosiva. Quando diventammo amiche me ne parlo cosi tanto di quella cosa assurda - prima di noi - che fini per trasmettere il nervoso anche a me. Era il tempo lungo, lunghissimo, in cui non c'eravamo state; il tempo in cui don Achille s'era mostrato a tutti per cio che era: un essere malvagio di incerta fisiono...
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